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La mia dura vita da salinaro

La mia dura vita da salinaro

L'intervista al salinaro Sergio Dallamora

Una testimonianza diretta

Sergio Dallamora racconta il mondo della salina, il duro lavoro del padre e del nonno e ricorda quando da piccolo andava ad aiutare, tirando il cariolo pieno di granelli luccicanti.

Sale di Cervia

 

VITA DA SALINARO

“Sono di ceppo salinaro” racconta Sergio, 82 anni, per tutti da sempre ‘e fiol’ (il figlio) di Alvaro d’Ope, dove Alvaro era il babbo, salinaro, e Ope il nonno, anch’esso salinaro.
In realtà tutte e due le famiglie di Sergio, materna e paterna, lavoravano in salina e lui ha scoperto fin da piccolo quei granelli luccicanti di sale e come si raccoglievano con il cariolo.
“Mio padre era nel barcone Montanari - inizia Sergio - e abitavamo in uno dei borghi dei salinari, la borgata Aurelio Saffi.
Fin da bambino andavo in salina per aiutare mia mamma nella raccolta, tiravo il cariolo.
Poi crescendo si imparavano le tecniche, perché era importante saper fare bene il lavoro.
Prima di andare nei militari ho fatto il salinaro sostituto, andavo a lavorare in salina al posto di chi si ammalava o di chi aveva chiesto un permesso, in seguito ho lavorato anche nella spedizione del sale, ma dopo la ristrutturazione di tutto il complesso salifero ho cercato un’altra occupazione”.

Sergio DallamoraINTERVISTA A SERGIO DALLAMORA

Come era la vita del salinaro nella salina artigianale?
Si andava in salina presto al mattino e si ritornava a casa al tramonto. 
In salina si raggiungono i 40°, l’argilla scotta, si faceva fatica.
Era una vita dura.
A fine campagna i salinari uscivano smagriti, bruciati…
Quando il sale era maturo veniva spinto verso i margini del bacino e poi raccolto e trasportato con un cariolo.
Una volta scolato il sale era già pronto.
C’era anche un premio per chi lo faceva più bello, più bianco. 
A settembre avanzato arrivava la fine della campagna del sale, la salina si riempiva di fiori, li chiamavamo i settembrini

La salina ha conosciuto diverse fasi. Come funzionava quando ci lavorava la sua famiglia?
Prima della trasformazione c’era la raccolta artigianale su 149 saline piccole. 
Ogni famiglia ne aveva una e la lavorava.
Tutti aiutavano il salinaro, la mamma e i figli andavano quando si doveva raccoglierlo. 
Poi il sale veniva portato ai Magazzini con le burchielle, era il tempo della rimessa del sale e da lì partiva in ferrovia.

Poi le cose cambiarono…
Esatto, nel 1959 i Monopoli di Stato decisero di trasformare l’intera struttura e anche le tecniche di produzione.
Si introdusse la raccolta unica annuale con mezzi meccanici, anche le abitudini dei salinari cambiarono; all’inizio si sentivano come pesci fuor d’acqua.
A testimoniare il mestiere antico è rimasta la salina Camillone dove si continua a raccogliere il sale ogni giorno.

Lei fa parte del Gruppo Culturale della Civiltà Salinara nato nel 1990 proprio per non disperdere questo sapere. Di che cosa vi occupate?
L’idea è stata quella di testimoniare e valorizzare una storia e una tradizione che altrimenti rischiavano di scomparire. 
Musa, il Museo del Sale, ha raccolto documenti, attrezzi e foto che testimoniano l’ambiente e la produzione del sale, la salina Camillone è diventata una specie di aula didattica per far vedere la lavorazione e la raccolta ai turisti.
Facciamo visite guidate e iniziative con esperienza diretta di raccolta del sale sotto il sole.
Io vado anche nelle scuole a raccontare la storia della tradizione salinara ai giovani, perché è stata la storia della fatica di tante famiglie cervesi e di tante generazioni.

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